Assunto di base

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre.
(Albert Einstein)

mercoledì 30 luglio 2008

Serenata


1. Verifica che la finestra sia quella giusta
2. La chitarra elettrica non è romantica
3. Cantare in playback nemmeno
4. Lascia il motore dell’automobile acceso
5. Se sei troppo stonato inventati qualcos’altro


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lunedì 28 luglio 2008

Certi inciampi linguistici

di Salvatore Insana




Acrobazie labirintiche intrecciate, moltiplicarsi di letture nell'affollamento, divaricarsi di lingue e linguaggi per compiere azioni diverse. Vado infine a stendermi su quelle enormi poltrone della multisala Mk2 più vicina. Ascoltare in inglese, leggere in francese, pensare in italiano...e vedere? come? comprendere? Quando?...Certi inciampi linguistici buffi ed inattesi fanno tuttavia sobbalzare. “Il futuro non è chiaro per me”...confessa il piccolo tedesco durante l'atelier di lingua. Ma è del tempo verbale che stava parlando, e non di ciò che interessa maggiormente noi tutti, ovvero il proseguimento sano o felice della nostra avventura.
Un continuo stato di allerta, un ripetuto dibattersi ed interrogarsi quando c'è da intraprendere una discussione nell'altra lingua. Dubitare su cosa avrà mai detto quel tale, di cosa si trattava esattamente in quel dialogo, cosa è rimasto intrappolato nella traduzione? Eppure sopravvive una certa rilassatezza del sentirsi in ferie dal proprio linguaggio ufficiale, forse anche dal proprio personaggio abituale. Eppure in tale situazione, diviene più stimolante quel brivido continuo: dare un nome alle cose. L'azione è meno ovvia, più meditata, sempre all'interno di una libertà inusitata di parola e delle parole che vanno e vengono incontrollate, mentre si va confessando a se stessi che d'un proprio linguaggio multicolore ormai ci si serve, una piattaforma molteplice che di tutti questi apporti si serve con continuità crescente.

Essere in un cruciverba nel quale si va sempre cercando la parola mancante..e gli spazi vuoti sono ancora numerosi...un cruciverba dai tratti esistenziali e metaforici, di quelli per i quali serve forse un dizionario non ancora concepito, un formulario non ancora pensato, uno stradario che fa della vaghezza il suo punto di riferimento. Ogni nuova parola scovata e memorizzata è un passo avanti nella costruzione Il grande crossword è la città, ed io di questo gioco sono il piccolo attore che s'arroga il ruolo sublime del viaggiatore smarrito. In cerca di definizione, e senza dubbio di una piena destinazione, riempo progressivamente le caselle, colmo il bicchiere di nuovi termini lo svuoto ancora e provo a districarmi ad un livello ulteriore, nei pressi di un altro quartiere o di una rue ancora sconosciuta. E chi o cosa saranno mai le caselle oscure?

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venerdì 25 luglio 2008

La fede in metro

di Salvatore Insana





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mercoledì 16 luglio 2008

Non ci sono più le mezze stagioni

di Licia Ambu


Da tempo immemore, allo scattare del gap generazionale, sulle bocche dei più campeggiano frasi come: “Non ci sono più i giovani di una volta!” oppure “Con tutte queste nuove tecnologie non si capisce più niente, sono arabo per me!” o ancora “I giovani sono senza valori”. Affermazioni enunciate con cadenza quotidiana, spesso incalzate da un’eco storica notevole. Per quanto riguarda la mia esperienza personale, ciò si traduce all’incirca in un allarme quotidiano, ad opera, il più delle volte, della sociologia possiamo dire popolare. Eppure questa fobia del nuovo nella pratica non si traduce in una fuga di cervelli, al contrario, ad un’occhiata più approfondita, ci si accorge che il cyber spazio pullula d’indirizzi freschi e, indubbiamente, posta un’accurata considerazione dei contenuti, non tutti abitati da sbarbatelli fritti a puntino dall’ultima Play Station.

Oddio, mi si taccerà di bestemmia per quanto affermato. Sembra quasi che in questa sede si voglia far passare la rete per uno strumento democratico! Sarebbe come dire che in rete, sotto l’egida di “maneggiare con cura”, chiunque ed ovunque, può accedere e creare qualcosa di personale, senza possedere neuroni targati Nasa. Impossibile. Eppur si muove! A questo punto non ci resta che provare! Inseriamo in un qualunque motore di ricerca i termini Creare un blog. Ora dovremmo ritrovarci davanti una sequela di indirizzi che ci promettono, in cambio di un semplice account e dieci minuti di pazienza, un nostro blog , il tutto senza uno straccio di competenza informatica. Ebbene lo spirito creativo che ci abita non ha più inibizioni. Creato il nostro account, siamo cittadini della rete. Siamo in regola. La prossima fase è battezzare la nostra creatura. Non resta che arredare la nostra stanza virtuale secondo lo stile che più assomiglia al colore delle idee e dei significati che vogliamo far veicolare al nostro blog e il gioco è fatto. Semplice no? Ora siamo blogger. Abbiamo colonizzato il nemico e ci apprestiamo ad essere gli amministratori del nostro personale spazio on line. Siamo internauti comprovati. Abbiamo a nostra disposizione uno spazio da gestire come preferiamo. Se ad esempio decidessimo di pubblicare il nostro prossimo pensiero non dovremmo fare altro che cliccare sulla voce Nuovo post e scrivere: Sto pubblicando il mio primo post. Superato lo scoglio del primo gli altri verranno da soli, si spera con qualche contenuto più rilevante.
In effetti, si potrebbe controbattere che proprio la facilità di accesso comporti il rischio che ad essere veicolati siano contenuti talvolta poco apprezzabili, ma questo fa parte del gioco, d’altra parte anche la Bibbia è questione di autorevolezza delle fonti. Quando, però, si tratta di un utilizzo costruttivo e, oserei dire, anche terapeutico ne nascono opere d’arte tra il serio ed il faceto. Come avvenne per le radio libere e di movimento anche i blog diventano manifesti del pensiero politico, portatori di istanze umanitarie, diari di bordo o album fotografici a colpi di ultimi post. Ma citiamo qualche dato: per quanto riguarda il nostro paese, l’epidemia è approdata in Italia negli ultimi anni con cifre interessanti. Si è passati dai 300 blog del 2002 [1] ai 5000 del 2003, per poi crescere vertiginosamente in seguito, fino ad oggi. Tutto sommato non male per un paese di vecchi! (Come cantano sempre più frequenti statistiche). Mio malgrado è proprio questo il punto.
Insomma, esiste in tutto questo un aspetto a dire il vero poco democratico in un tale contesto. A puro discapito dei neuroni new generation ed in particolare di quelli che subiscono le sciorinate esistenziali sui giovani senza valori, il blogger è senza identità.
Magari dietro Pulsatilla si cela proprio la signorina matura che palpeggia tutta la cassetta di mele al mercato alla ricerca di quelle migliori, mentre si lamenta di quel cervello fritto del nipote. Ma questo chi può dirlo? Probabilmente, a meno di coglierla sul fatto, noi non lo sapremo mai. Ma questa è un’altra storia.
In fede
una blogger.

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martedì 15 luglio 2008

Dimenticare la distanza. A proposito di un Woody Allen

di Salvatore Insana




It's me, not him. Isn't that obvious? - Well, how do you explain that here I am?

Woody Allen è nel “post”. Ha visto tutto il meglio del cinema d'autore e di genere che lo ha preceduto. E allora non può che venir dopo la sophisticated comedy anni '30, dopo Godard, dopo Bergman, dopo Fellini. Il suo è un cinema che ha preso coscienza dello strumento, che conosce la storia passata, che riflette sulle interconnessioni tra dispositivo e utente. Tutto converge, confluisce, entra e si mescola nel lavoro di questo cineasta atipico, sfuggente, incatalogabile, che scivola a lato dell'autorità e dell'autorevolezza, sulle ali del più raffinato humour jiddish.

La rosa purpurea del Cairo, sua magistrale opera datata 1985, ci lancia schegge impazzite e sovversive di pensiero non irregimentato, tra dialoghi che parodieggiano i ritmi ed i modi di una certa commedia tanto leggera quanto lunare, sonorità anni '30 rivisitate in chiave nostalgica, meccanismi narrativi che di servono molto del linguaggio parlato e celano apparentemente le modalità di messa in scena.



L'impalcatura narrativa si regge intorno ad una Mia Farrow mai come in tale ruolo tanto naif ed angelica, giovane donna bistrattata da un marito in preda all'alcool e alla disoccupazione. È il cinema l'unica via d'uscita per la protagonista Cecilia, ansiosa di lasciar da parte le delusioni e le fatiche del quotidiano sopravvivere in tempi di depressione economica. Il nutrimento da celluloide produce esiti imprevisti, fino all'evento destabilizzante dell'attore del grande schermo che lascia la pellicola per fare il grande passo ed entrare nella vita “reale”, follemente innamorato della stessa Cecilia. Da questo brillante soggetto si articola una prova filmica che diventa saggio sulla possibilità di esistere anche fuori dagli schemi e domandarsi con il protagonista Cosa è finzionale? , forse ciò che è perfetto? Ideale? Ciò che è fedele ad una giustizia limpida e non soverchiabile?

Se la figura di Cecila è un richiamo e forse un omaggio ai deplacé, individui fuori posto e fuori luogo, esuli e profughi da una situazione in cui non si adattano o non si riconoscono, da una società che impone una netta codificazione dei personaggi e spinge ad una ribellione che si nutre del mettere la testa altrove, nel cinema appunto, nella reverie permanente, più che nel sogno spezzato da un certo orario di inizio e di fine. Il Tom Baxter ( l'attore Jeff Daniels) che, parafrasando le sue dichiarazioni, s'annoia a far sempre lo stesso personaggio, ha voglia di “guardarsi intorno”, è il rovesciamento di una certa linea attoriale più vicina al teatro che al cinema popolare, quella, per intenderci, del Carmelo Bene che fa di tutto per non recitare una parte ma piuttosto “mettere in scena se stesso”, istanza urgente ed evidente già nelle correnti d'avanguardia d'inizio secolo, tutte tese a rinnegare la linea maestra del personaggio già prescritto, ed a far piuttosto della propria vita un'opera d'arte.

Attacco non mediato alla metafisica e all'idealismo, l'impasse che si crea al momento di scendere dal piedistallo della finzione, quel non comprendersi tra la donna e il divo della finzione su chi possa essere il creatore, della storia o della Storia, porta il personaggio fuoriuscito ad attribuire il lavoro d'aver creato il mondo agli sceneggiatori, rendendo così non troppo azzardato pensare a qualche inconsapevole precursore di tale professione come plasmatore di tutto l'orizzonte religioso che ci circonda, ideatore della “ragione del tutto”. E poi quel pensare alla vita come “ a movie with no point and no happy ending”, ricongiunge Allen a tanti discorsi cari ai surrealisti: "Tout porte à croire qu’il existe un certain point de l’esprit d’où la vie et la mort, le réel et l’imaginaire, le passé et le futur, le communicable et l’incommunicable, le haut et le bas cessent d'être perçus contradictoirement." . (Andre Breton, Secondo Manifesto Surrealista, 1929).

Fino al punto cruciale, che è la riconsiderazione del tutto, al netto d'ogni pregiudizio, l'interrogazione sull'opportunità d'avere un punto di vista non troppo fisso. Ecco alcuni stralci del dialogo tra gli attori costretti a rimanere dentro lo schermo, senza potere evacuare da quel loro ruolo:

What if all this is merely semantics? - How can it be semantics? - Well, let's just readjust our definitions. Let's redefine ourselves as the real world... ... and them as the world of illusion and shadow. You see? We're reality, they're a dream.

Un cinema congegnato come meccanismo che si nutre di passaggi, di trapassi, di attraversamenti, di stili, di generi, di dimensioni, che gioca sull'equivoco del mondo perfetto e sul percorso fatto di inciampi inspiegabili che è quello proprio della quotidianità. Andando oltre Il riferimento più celebre e più puntuale, Alice che attraversa lo specchio, il Don Chisciotte Di Orson Welles in lotta contro le armate proiettate sullo schermo bianco di un cinema di provincia è forse il milgior esempio cinematografico di autoanalisi. Il film si insedia dentro il metagenere del cinema ( solitamente più vicino alla comedy) che parla di se stesso e riflette sulle sue condizioni di esistenza e sussistenza, sull'intricato rapporto spettatore-schermo, ed ha antecedenti celebri come Sherlock Junior (1924) di Buster Keaton, Hollywood or Bust (1956) di Frank Tashlin, con Jerry Lewis, ed ancora Hollywood Party (1968) Blake Edwards, senza dimenticare filiazioni più o meno dirette come Pleasentville (1998) di Gary Ross, Essere John Malkovich (1999) di Spike Jonze o il recente La Science de reves (2006) di Michel Gondry Inoltre il carattere metalinguistico del discorso percorre buona parte della filmografia del cineasta americano, da Zelig a Stardust Memories fino a Celebrities. Un discorso già ben solcato, insomma, con qualcosa in più: è per una volta il fantasma dell'oggetto sognato che viene da noi spettatori, è lui ad attraversare lo schermo per primo, sovversione carnevalesca ovvero ribaltamento inaudito dei ruoli tra desiderante e desiderato. Non si tratta di un film convenzionalmente onirico, ma di un'opera ben più perturbante, in cui si crede possibile e naturale il passaggio da un lato all'altro dello schermo. Si erra intorno all'espansione psicologica di uno spettatore di uno spettatore avvolto nella più grande fascinazione, l'immedesimarsi con le figure impresse su celluloide e la dimenticanza di quella distanza di sicurezza (?) con il meraviglioso artefatto del cinema che in apparenza ci conserva “sani”.

The real ones want fictional lives, the fictional ones want real lives.

Restano tuttavia degli accorgimenti stilistici ad evidenziare la non completa indistinguibilità tra una dimensione e l'altra, il colore della realtà ed il bianco e nero della finzione, l'abito scenico del protagonista Tom Baxter, che rimane immutabile e non deteriorabile, gli spassosi equivoci sul sesso con o senza dissolvenza; ma il margine tra attore e personaggio tende ad assottigliarsi, insieme alla sparizione paventata o ben attesa del cinema come esotismo, del ”andare altrove”, mettere in stand by il cervello per un paio di ore e poi tornare rigenerato alle faccende quotidiane. Superare la bidimensionalità che è piattezza di vedute, e tuttavia non scordarci del rischio di recedere a quell'uomo ad una dimensione che ha reso celebre Marcuse, il quale ha bene evidenziato come nella società post-industriale predomini un generale conformismo, anche nella presunta dichiarazione di libertà dell'individuo, invero incapace di un pensiero che non sia semplicemente modellato sulla realtà esistente, bensì capace di opposizione critica e di una visione non soggiogata al regime del produrre consumare sprecare, e non avvolta nel vortice di falsi bisogni .


Dopo il classico, racconto che segue una lineare cronologia degli eventi senza scossoni o labirinti interpretativi destabilizzanti, ma successivo anche alla corrosione di questa illusione narrativa che Godard ha inaugurato con le operazioni dichiarate di montaggio non naturale di À bout de Souffle (1960), Purple Rose of Cairo è un lavoro post-moderno, nel suo delinearsi come ricostruzione di un film di genere (commedia in questo caso), cosciente di arrivare in un'epoca in cui tutto è già stato decostruito e rivisitato. Woody Allen si piazza in un anfratto sospeso o forse ormai alimentato dalla sola nostalgia di un esperienza non più replicabile, quella dell'identificazione. Il cinema d'autore infatti lavora ormai dichiaratamente sulla decostruzione e sullo spiazzamento, sul gioco delle attese deluse e dei meccanismi rivelati: ed il cinema industriale, macchina spettacolare per eccellenza è una parodia di generi che si situa troppo lontano da ogni percorso quotidiano (si veda ad esempio Sweeney Todd, o Io sono Leggenda). Pastiche e melange di suggestioni diverse, il suo cinema dissemina elementi di semantica filmica dentro una impalcatura che si finge tradizionale, ritorna più volte su se stesso riproponendo sequenze identiche o alterate dalla contingenza della storia, gioca a mimare il meccanismo di funzionamento del nostro pensiero, con la sua attitudine a girare intorno, con insistenza, ai pochi momenti di luce che percorrono le nostre giornate.
Il film che continua la sua vita anche dopo la parola fine, come i quadri di Pollock che continuano a trasudare vernice anche cinquanta anni dopo il gesto creativo del pittore, eco di quella volontà a tratti utopica di garantire una organicità autonoma all'opera d'arte, sentire il respiro, non avvertirne mai il decesso, garantendosi piuttosto un rapporto che è continua, ostinata, produttiva dialettica tra l'uomo e la sua creazione. Alla fine del film Cecilia si decide ad abbandonare definitivamente il marito e la grigia vita senza emozioni per volare ad Hollywood insieme a Gil Shepherd (ancora Jeff Daniels), l'attore che ha creato il personaggio di Tom Baxter. Ma giunta con la valigia e tutto il suo entusiasmo all'ingresso del cinema, luogo stabilito per l'incontro decisivo, nessuno ci sarà ad attendere la povera Cecilia.Con le valigie si potrà allora entrare solo in sala, per iniziare un altro viaggio, ben comodi sulla propria poltrona.

"Che cosa dobbiamo fare con le nostre immaginazioni? - si chiede Giorgio Agamben in un suo prezioso libricino - Amarle, crederci a tal punto da doverle distruggere, falsificare (questo è, forse, il senso del cinema di Orson Welles). Ma quando, alla fine, esse si rivelano vuote, inesaudite, quando mostrano il nulla di cui sono fatte, soltanto allora scontare il prezzo della loro verità, capire che Dulcinea — che abbiamo salvato — non può amarci."

L'abolizione delle frontiere tra reale e virtuale forse c'è stata, facilitata dalle innovazioni tecnologiche del Novecento, ed accelerata in modo brusco dalla televisione e dai new media, ma forse, aderendo al pensiero di Jean Baudrillard, non si è andati nella giusta direzione, e più che aver compiuto una conquista, abbiamo provocato una sparizione: quella della realtà.

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lunedì 14 luglio 2008

Pena di morte

di Salvatore Tigani



- Al tuo perché hanno dato la pena di morte?
- Quello stronzo mi è entrato in casa, ha violentato mia moglie, le mie figlie, mi ha picchiato, ha sgozzato il mio cane, mi ha tagliato il pene e dopo averlo usato per disegnare una svastica sui muri me lo ha messo in bocca, mi ha pisciato addosso, mi ha cosparso di cherosene e mi ha dato fuoco, poi ha violentato ancora mia moglie e le mie figlie, ha mozzato a mia madre un dito e lo ha usato per scrivere dei versi satanici sul pavimento, ha eiaculato sul letto matrimoniale, ha cagato sul tavolo della cucina e se ne è andato portandosi via tutti i nostri gioielli e risparmi.
- Al tuo perché?
- È rom. Ah, e poi mi ha rubato il portafogli.
- Che bastardo!
- Già.

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venerdì 11 luglio 2008

Cellulare

di Salvatore Tigani


1. La suoneria migliore è quella che non trilla in pubblico.
2. Non a tutti interessa sapere cosa hai detto al tuo ragazzo, l’altra sera, in pizzeria.
3. Anche se hai chiamato tu, non è detto che il tuo interlocutore gradisca stare al telefono con te per tutto il tempo che vuoi.
4. Ogni tanto, comunque, cambia orecchio.
5. Prima di rispondere e dopo aver chiuso evita di chiedere scusa agli astanti: non si sentiranno presi per i fondelli.

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